lunedì 26 settembre 2011

"Io accolgo te" - intervento completo di Frate Lorenzo Raniero ofm

Oggi ho il piacere di condividere con tutti voi l'intervento pubblicato " a puntate" su vari numeri della rivista "I Gigli del Santo" edita dai Frati Minori di Lonigo. E' stato scritto da Frate Lorenzo al quale va tutta la mia gratitude per avermi concesso di pubblicarlo sul mio blog. Il testo è integrale e contiene, pertanto, anche la parte che ho già pubblicato, sempre su questo blog, dal titolo "Io accolgo te ogni giorno della vita". Ora mi ritiro e lascio il campo a Frate Lorenzo. Buona lettura e meditazione.

«IO ACCOLGO TE»

Spiritualità del consenso matrimoniale.

Non ci sono parole tutte uguali. Esistono parole che sono chiacchiere effimere, comunicazioni fredde, informazioni scarne, avvisi precisi; oppure ci sono parole che danno vita, che creano relazioni, che costruiscono rapporti perché sono partecipate, condivise, piene di significato. Le nostre parole possono essere una semplice ‘emissione di voce’, oppure possono contenere la densità della vita, la corposità delle relazioni, la concretezza dell’esistenza. Le parole di Gesù che troviamo nel vangelo hanno il potere di cambiare la realtà; hanno una ricchezza e una pregnanza tale che realizzano quello che dicono. Per questo chi lo ascoltava e vedeva le sue opere esclamava con stupore: “Mai nessuno ha parlato come quest’uomo” (cf. Lc 4,36 ). Il contenuto della parola di Gesù si avvera nella vita degli uomini; la sua parola è un vero e proprio evento, un concreto accadimento.
Anche noi uomini facciamo esperienza di parole di questa portata: una dichiarazione d’amore, una promessa di amicizia, un’offerta del perdono, il dono della gratitudine, la lettura di una sentenza. Queste parole hanno uno spessore diverso da tutte le altre; non sono soltanto informazioni che mettono al corrente di un determinato fatto o semplici descrizioni di una realtà accaduta. Si tratta di parole ‘performative’ che creano una nuova realtà là dove prima non c’era nulla; sono parole che rendono reale ciò che esprimono e che producono qualcosa di nuovo.
Tempo fa mi è stata raccontata la storia di un uomo sposato, di mezza età, dai modi un po’ bruschi, più propenso a fare che a parlare. Assieme a sua moglie, una donna dolce e delicata, aveva tirato su tre figli; ma dal giorno in cui anche l’ultimo figlio si sistemò e uscì di casa, la moglie di quell’uomo incominciò a perdere il sorriso, divenne sempre più esile e pallida. Non riusciva più a mangiare e in breve non si alzò più dal letto. Preoccupato, il marito la fece ricoverare in ospedale. Vennero al suo capezzale medici e poi specialisti, ma nessuno riusciva a capire che malattia fosse. L’ultimo specialista prese da parte quell’uomo rude e gli disse: «Direi… semplicemente… che sua moglie non ha più voglia di vivere!». Senza dire una parola quell’uomo si sedette accanto al letto della moglie e le prese la mano. Poi, con la sua voce grossa, disse deciso: «Tu non morirai!». «Perché?», chiese lei, con voce sottile. «Perché io ti voglio bene e ho bisogno di te!». Da quel momento la donna cominciò a migliorare e oggi sta bene. Medici e specialisti continuano a chiedersi che razza di malattia avesse e quale straordinaria medicina l’avesse guarita. È stata una semplice parola; una parola di bene, di affetto, di vicinanza che ha ricreato una situazione disperata.
I sacramenti della Chiesa hanno questo tipo di parole. In ogni celebrazione sacramentale ci sono delle parole efficaci, creative, capaci di dare vita a una nuova realtà. Chi le pronuncia con fede viene trasformato e comincia a vedere le cose in modo nuovo. Questa è la parola sacramentale: una parola che compie quello che dice. Mentre essa viene detta, accade quello che dice. Così sono le parole pronunciate dagli sposi il giorno delle nozze: «Io accolgo te; con la Grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, di amarti, di onorarti…». Sono parole che realizzano materialmente ciò che dicono e che danno vita ad un rapporto di una qualità diversa che prima non esisteva. Con questa serie di brevi articoli che iniziamo oggi, rileggeremo una ad una queste parole così importanti con le quali gli sposi cristiani celebrano il sacramento delle nozze; cercheremo di comprenderne il senso evidenziando tutto lo spessore esistenziale che contengono e il loro profondo legame con la Parola di Dio.


2. «IO ACCOLGO TE». Scoprire la propria identità.

Le parole con le quali l’uomo e la donna si uniscono in matrimonio hanno un inizio solenne e maestoso. Ciascuno dei due è invitato ad affermare la propria identità personale e a pronunciare il proprio nome di battesimo. Chi si sposa è un uomo e una donna che ha la consapevolezza di se stesso; l’importanza di ciò che sta per accadere davanti all’altare del Signore richiede che i due sposi abbiano preso coscienza della loro identità: pronunciare con solennità il pronome personale «io» significa riconoscersi dentro la propria storia, ritrovarsi dentro quella scelta fondamentale e definitiva che si sta facendo. Perciò: «io» accolgo te, e non un altro; «io», con tutta la mia storia, con il mio carattere, con la mia intelligenza, con la mia vita affettiva! Nel momento in cui si fonda la vita matrimoniale occorre, dunque, aver trovato se stessi e conoscersi a fondo, affinché la scelta sia concreta e completa. Questo presuppone che durante il fidanzamento l’uomo e la donna abbiano imparato a svelarsi l’uno di fronte all’altro, ad approfondire la propria personalità, a plasmare il proprio carattere.
Ogni inizio, dunque, domanda di ritornare su se stessi per prendere consapevolezza di quello che sta per accadere e quali siano le richieste concrete di ciò che sta cominciando. Anche nella vita di Gesù di Nazareth accade qualcosa di simile: “In quei giorni Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,9-11). All’inizio della sua missione pubblica, Gesù vive un momento particolarissimo: prende coscienza del suo mandato, comprende lo scopo della sua missione, intuisce i risvolti concreti che avranno le sue scelte. Gli si apre la mente e il cuore e, come in una rivelazione illuminante, capisce quello che deve fare. È il momento in cui Gesù fa chiarezza su di sé, sulla sua missione, sulle sue responsabilità. Sulle rive del Giordano, dunque, Gesù viene confermato nella sua identità e viene rafforzato nella sua personalità, cosicché possa iniziare con efficacia la sua opera di bene per Israele. Ma come accade tutto questo? La conferma della sua identità e della sua missione Gesù non se la dà da solo, ma la riceve da un altro: dal Padre. “Tu sei il mio Figlio prediletto”, cioè colui che amo sopra ogni cosa! Gesù sente che la sua vita e la sua missione è voluta da Dio, suo Padre; sente che è amorevolmente appoggiato e sostenuto da Lui in tutto quello che farà, e ciò gli dà una grande sicurezza che quello che sta per iniziare è buono e giusto. In altre parole, Gesù prende consapevolezza di sé e della propria missione, acquista sicurezza e forza soltanto quando si mette in relazione con Dio, suo Padre. Solo davanti al Padre dei cieli Gesù sa chi è, sa di essere il Figlio, salvatore del mondo!
Tutto ciò è vero anche per gli sposi. È una grande illusione pensare di conoscersi da soli, senza confronto, restando chiusi in se stessi. Fintanto che non c’è apertura e confronto sincero con l’altro, non riusciremo mai a comprendere a fondo la nostra identità e a dire con verità quell’«io» che pronunciamo il giorno delle nozze. L’altro, dunque, mi aiuta a capire meglio me stesso; mi svela, mi mette a nudo, tira fuori il mio vero «io», mette in luce parti di me che altrimenti sarebbero rimaste sempre al buio, sconosciute. Il proprio sposo o la propria sposa è colui che ti aiuta a liberarti di tutto quello che tu non sei, per trovare la tua profonda identità. Questo è il lavoro del fidanzamento, ma anche quello degli sposi quando la vita assieme ti scolpisce l’anima, togliendo tutto ciò che è superfluo, fino a svelare l’opera d’arte che c’è in te.


3. «IO ACCOLGO TE». Chiamati per nome.

Il matrimonio ha uno stretto rapporto con il battesimo attraverso il nome, pronunciato dagli sposi all’inizio della formula del consenso. Esso indica la persona stessa che nella sua originalità si distingue dalla massa degli individui. Noi non siamo dei numeri nella massa; chi si sposa non è uno qualunque, ma ha un nome, egli è il suo nome. Conosciamo tutta la dolcezza che ha il nome nel rapporto amoroso ed affettivo degli amanti: ha una potenza straordinaria, possiede un grado di realtà molto grande; ha la forza evocativa di rendere presente proprio quella persona – e non un’altra –, per la quale si è pronti a donare la propria vita. Ma non è solo questo. Ogni cristiano entra nella Chiesa con un nome preciso: i genitori hanno scelto un nome normalmente di famiglia, pensando anche, lodevolmente, ad un santo patrono. Ma dovrebbero pensare soprattutto al fatto che Gesù, buon pastore, “chiama le pecore per nome” (Gv 10,3), con ciascuno cioè ha un rapporto unico e irripetibile; ed inoltre che c’è da gioire perché i nostri nomi sono scritti nei cieli (Lc 10,20), cioè siamo e viviamo in Dio.
Chi si presenta al matrimonio, dunque, è una persona che ha un nome, quello che le è stato dato nel giorno del battesimo. Il nome indica appartenenza; ma il nome del cristiano indica ancor di più appartenenza a Cristo. Per sottolineare questa realtà fondamentale, il nuovo rito del matrimonio, tra le varie modifiche apportate, ha introdotto all’inizio della celebrazione il ricordo delle promesse battesimali. Gli sposi, prima di celebrare il loro matrimonio, fanno memoria della loro propria identità cristiana: lì, davanti all’altare del Signore, ci sono due cristiani che si sposano, due persone che appartengono a Gesù Cristo e nelle quali abita lo Spirito santo che li rende figli di Dio! Questa realtà è ben descritta da san Paolo, nelle sue lettere:“Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo… Non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo” (Gal 3,27-28). Il matrimonio è il sacramento dell’unità e dell’amore, ma questo è vissuto in Cristo: è Lui che caratterizza e rende unico l’amore di attrazione tra uomo e donna. Poiché ciascuno, nel battesimo, si è rivestito di Cristo, di conseguenza gli sposi si amano con le caratteristiche dell’amore di Gesù per gli uomini: un amore totale, senza riserve, disinteressato e che arriva fino a dare la vita. Si tratta di una realtà presente, viva e possibile nel cuore di ognuno degli sposi che possono dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato stesso per me” (Gal 2,20).
Il nome, dunque, ci rimanda alla chiamata e alla vocazione di ciascuno. Tale chiamata è intimamente rivolta ad una persona che è unica, irripetibile e originale, che ha un nome esclusivamente suo, diverso dagli altri! In questo modo, ognuno degli sposi, con il suo nome proprio è chiamato a rispondere a questa vocazione a partire da se stesso: da ciò che è come uomo o donna e da come vive la sua unione con Cristo. La propria vita spirituale e la adesione a Gesù Cristo e alla sua Parola non è indifferente, in ordine al sacramento del matrimonio! È invece la base imprescindibile perché si possa realizzare la propria vocazione fondamentale e affinché si faccia dell’amore verso l’altro un autentico ed efficace sacramento dell’amore di Gesù Cristo per gli uomini. Gli sposi cristiani, uniti a Cristo nel battesimo, sono chiamati con il loro amore a riprodurre nella comunità l’Amore di Dio per gli uomini; primariamente tra di loro, donandosi la vita fino alla fine per amore, e conseguentemente agli altri, ai figli che verranno e a quanti li avvicineranno.


4. «IO ACCOLGO TE». Aprirsi al dono dell’altro.

Un giorno uno scapolo chiese al suo computer di trovargli la compagna perfetta: «Voglio una ragazza piccina e graziosa, che ami gli sport acquatici e le attività di gruppo». Dopo un po’ il computer rispose: «Sposa un pinguino». Molto spesso costruiamo le nostre relazioni umane su delle aspettative che ci portiamo dentro o su delle idee che abbiamo dell’altro, che il più delle volte non corrispondono alla realtà delle cose. In questo modo l’uomo e la donna vanno alla ricerca di qualcuno che colmi le loro esigenze e riducono la relazione d’amore ad una specie di “supermercato” dove ognuno prende quello che gli serve e che corrisponde ai suoi bisogni impellenti.
La formula del consenso matrimoniale contenuta nel nuovo rito del matrimonio ci apre, invece, alla dimensione del dono. La parola che viene pronunciata dagli sposi è proprio quella dell’apertura fiduciosa all’altro: io accolgo te. Gli sposi promettono reciprocamente di aprirsi alla concreta realtà dell’altro per abbracciare tutto il mondo della persona reale che è lì davanti: la sua diversità, la sua storia, il suo carattere, la sua educazione, i suoi desideri, i suoi sogni. Anche se gli sposi si sono scelti reciprocamente, tuttavia essi hanno sempre bisogno di accogliersi e di riscoprirsi come dono l’un per l’altro; infatti essi sono due persone che crescono, che camminano, che cambiano rivelando aspetti inediti e nuovi della propria personalità che hanno bisogno di essere ospitati reciprocamente con rinnovato impegno. Questo predispone e apre alla meraviglia e alla gratitudine: ogni dono è sempre una sorpresa inaspettata che viene a ringiovanire la relazione e a rinnovare l’amore coniugale. Chi accoglie veramente, dunque, non è soltanto un recettore passivo, fermo, statico e inerme, ma è soggetto di una vera e propria attività che gli domanda di sgomberare l’animo da ogni idea preconfezionata dell’altro per far posto all’originalità e al mistero della persona da accogliere.
Ma per accogliere veramente l’altro, con il suo modo di essere, la sua diversità e anche i suoi difetti, devo prima essermi distaccato da tutte le mie aspettative e aver creato uno spazio ospitale nel mio animo e nella mia vita. Accogliere l’altro per quello che è significa emigrare dal mio ‘io’ e dirigermi verso un mondo nuovo che non mi appartiene, che non conosco e che non possiedo totalmente. Questo è essenziale all’amore, poiché l’amore vive se è proiettato al di fuori di se stessi e se è totalmente lanciato verso l’altro. Potremmo affermare che è impossibile essere felicemente sposati con qualcuno, se prima non si è divorziato da se stessi!
La propria moglie e il proprio marito, dunque, sono un dono da accogliere incondizionatamente, senza volere che sia diverso da ciò che è. Qui si sperimenta una delle dimensioni più belle e, nello stesso tempo, più difficili dell’amore: amare l’altro non perché è perfetto o perché è l’esatta riproduzione di qualche nostro stupido sogno, ma semplicemente perché è una persona che ha la mia stessa dignità e il mio stesso valore. Il marito perfetto è quello che non vuole una moglie perfetta, ma che accoglie interamente il proprio coniuge per quello che è. Se dunque lo sposo o la sposa è capace di vera accoglienza, allora l’altro si sentirà limpidamente amato per se stesso e non per qualche suo merito o pregio. Di conseguenza, in questo clima di stima e di amore disinteressato ciascuno sarà capace di consegnarsi nelle mani del proprio coniuge senza paura di mostrare le proprie debolezze e fragilità.


5. «CON LA GRAZIA DI CRISTO». L’amore di gratuità.

Tra le modifiche recentemente apportate al Rito del matrimonio, all’interno della formula del consenso troviamo un’importante aggiunta che è l’oggetto della nostra riflessione: gli sposi si dichiarano il loro reciproco amore con l’aiuto della grazia di Cristo. Che cosa significa? Questa espressione fa riferimento all’amore completamente gratuito (la grazia) che Gesù Cristo ha avuto per tutti gli uomini e che continua a riversare su di noi oggi attraverso il dono dello Spirito santo. Per spiegare di che tipo di amore si parla, san Paolo lo mette in relazione con il peccato dell’uomo e scrive: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo” (Rm 5,20-21). Solo un amore che si riversa su un uomo peccatore e malvagio che non ti può corrispondere è un amore totalmente gratuito!
Con questa espressione veniamo introdotti, dunque, nel tema della gratuità dell’amore. Per gli sposi cristiani che mettono Gesù Cristo a fondamento del loro matrimonio l’obiettivo verso cui tendere è quello di amarsi reciprocamente in modo incondizionato e senza riserve. La gratuità è una qualità dell’amore di Dio che egli ci ha rivelato nella vita di Gesù Cristo, il quale ha amato incondizionatamente gli uomini, senza cercare nessun tornaconto. Che cosa vuol dire amare gratuitamente? Significa ‘amare per niente’ cioè senza motivi, amare una persona non per quello che fa, per quello che mi dà o perché riempie la mia solitudine, ma amarla per ciò che è, senza scopi né fini personali. Due persone possono amarsi per vari motivi tutti validi: per esempio, lo sposo ama la sposa perché trova in lei lo stimolo e l’opportunità per crescere; oppure ci si ama per avere dei figli; o ancora ci si ama e ci si sposa per l’impegno di cambiare la società. Sono tutti dei buoni motivi, ma contengono in sé un pericolo: quello che siano perseguiti in maniera assoluta e che arrivino infine a distruggere la coppia. Infatti se ti amo e ti sposo perché tu mi aiuti a crescere umanamente e questo diventa lo scopo assoluto della coppia, si può incorrere nel rischio che se il marito si accorgesse che c’è una donna che lo fa crescere di più, lascerebbe la moglie per andare con un’altra. Allora vuol dire che quell’uomo non ha sposato la moglie, ma ha sposato la propria crescita: l’altro era, ed è, solo uno strumento per la propria crescita. L’amore di gratuità ci ricorda di amarci al di là di ogni motivo, mettendo al centro di tutto l’amore per l’altro come il vero assoluto della vita di coppia.
La tentazione di commercializzare l’amore, cioè di ricavarne sempre un piccolo tornaconto, si insinua continuamente fin nelle pieghe più profonde dell’animo umano. Ascoltiamo questo racconto. Una ricca signora tutta ingioiellata uscì da un lussuoso albergo dove aveva cenato e ballato per tutta la sera a una festa di beneficenza che raccoglieva fondi per i bambini poveri e abbandonati. Stava per accomodarsi sulla sua Rolls Royce, quando un ragazzino le si avvicinò piagnucolando: «Mi dia una monetina, signora, faccia la carità. Non mangio da due giorni!». La ricca signora si ritrasse inorridita ed esclamò: «Brutto ingrato che non sei altro! Ti rendi conto che è tutta la sera che ballo per te?». Anche quando si fa qualcosa per amore degli altri, possiamo farlo per sentirci importanti e quindi pretendere che gli altri ci siano riconoscenti; ma non ci accorgiamo che così facendo barattiamo l’amore con le nostre ambizioni e con il vanto di aver fatto qualcosa di bene. La gratuità dell’amore, che è la grazia di Cristo, sta ben oltre queste meschine pretese!


6. «PROMETTO DI ESSERTI FEDELE SEMPRE».

I due pilastri su cui si regge il matrimonio cristiano sono l’amore e la fedeltà. Si tratta di due realtà che possono essere vissute e interpretate in molti modi diversi, a volte anche contraddittori. In particolare, la fedeltà che gli sposi si dichiarano deve essere chiarita: di quale fedeltà si tratta? Nel modo comune di intendere la parola ‘fedeltà’ si pensa subito al passato: una persona è fedele quando rispetta la parola data, quando mantiene le promesse che ha fatto, quando esegue gli ordini e le consegne che ha ricevuto, e così via. Ma quando la parola ‘fedeltà’ viene pronunciata proprio qui, cioè all’inizio del matrimonio, nel momento in cui nasce questo sacramento, quando c’è più futuro che passato, che cosa si intende per fedeltà? Non può essere unicamente e soltanto fedeltà ad un impegno e ad una promessa passata, ma è soprattutto fedeltà ad un futuro da vivere accanto ad una persona concreta che cresce, cammina e matura con me.
Il fedele per eccellenza è Dio stesso. Egli è fedele a se stesso, alla sua natura che è quella di un amore che crea sempre cose nuove: Dio non ripete il ‘già fatto’, ma continua a inventare, a creare il ‘non fatto’. Egli è colui che crea nuove tutte le cose e lo fa per la crescita e il bene degli uomini, per l’espansione e il compimento del mondo. Pertanto la fedeltà ha a che fare con la novità! In questo senso si supera una concezione un po’ tradizionale di fedeltà che la considera ripetitiva, statica e monotona, dove si fanno sempre le stesse cose. Molto spesso è questo tipo di fedeltà a spaventare molti giovani di fronte ad un impegno di vita che sia ‘per sempre’, perché in esso vedono ripetizione, noia, fissità, immobilità. Ma se gli sposi imparano la loro fedeltà da quella di Dio, escono dalla monotonia e diventano anch’essi creativi perché iniziano a vivere non più una fedeltà al passato, ma ad una persona dinamica, che cresce, che cammina, che guarda avanti. La fedeltà che ci si promette il giorno delle nozze è quella di chi si prende cura del futuro dell’altro.
A cosa, dunque, si è fedeli? Potremmo dire che si è veramente fedeli quando siamo fedeli alla diversità della persona dell’altro. Questo significa rispetto della sua differenza, della sua originalità; perciò uno sposo o una sposa è fedele se stimola l’altro a valorizzarsi, a migliorarsi, a diventare sempre più se stesso. Inoltre si è davvero fedeli quando siamo fedeli al divenire dell’altro, cioè quando non solo ho sposato il suo passato e il suo presente, ma soprattutto quando ho sposato il suo futuro. Ciò vuol dire sposare la sorpresa e l’imprevedibilità che trovo nel mistero dell’altro che mi sta di fronte, significa sposare le possibilità inesauribili che la propria sposa o il proprio sposo contiene in sé. Da qui si capisce che la fedeltà per sempre non è niente di ripetitivo e monotono, ma che è una realtà estremamente vivace e da inventare ogni giorno.
La fedeltà a cui dico ‘sì’ il giorno delle nozze, dunque, è il mio ‘sì’ detto alla persona dell’altro che è sempre in divenire, in crescita, in mutamento. Ma si tratta anche di un ‘sì’ che non è soltanto mio, perché è sostenuto da Gesù Cristo che è stato fedele fino in fondo al disegno di Dio, suo Padre. Perciò il ‘sì’ pronunciato dagli sposi il giorno delle nozze è sostenuto ed è reso possibile grazie a Gesù Cristo, perché attraverso il battesimo gli sposi sono intimamente uniti a Lui. S. Paolo afferma questa verità quando dice: “Tutte le promesse di Dio, in Cristo sono divenute «sì». Per questo attraverso lui noi possiamo dire a Dio il nostro «Amen»” (2Cor 1,20), cioè anche noi, sulla parola di Gesù Cristo, abbiamo la forza di dire: sono sicuro, credo, ho fiducia!


7. «IO ACCOLGO TE» nella gioia e nel dolore.

Un giorno venne ricoverato in un reparto di terapia intensiva un paziente di nome Carlo. Era un uomo grande e grosso affetto da cancro alle ossa. Sebbene avesse molti dolori si lamentava raramente. La moglie lo seguiva con immenso amore e faceva in modo che ricevesse il miglior trattamento possibile. Dopo essere stato ricoverato diverse volte per la chemioterapia, le energie di Carlo si erano esaurite. L’ultima volta che venne ricoverato soffriva così tanto che era difficile prendersi cura di lui, perché anche i medici sapevano bene che non c’era più molto da fare. Era ormai in fase terminale e il suo dolore era così intenso che nessuna medicina bastava più a calmarlo. Sua moglie riusciva a malapena a passare qualche minuto sola con lui.
Una notte, verso la fine del turno, l’infermiera fece un ultimo giro per il reparto e andò a dare un’occhiata a Carlo. Aprì piano la porta della sua camera per non svegliarlo. Uno spiraglio di luce entrò dal corridoio e illuminò la camera come chiaro di luna. L’infermiera guardò verso il letto e non riuscì a trattenere un gemito di sorpresa. Carlo era steso sulla schiena, nella posizione che era più scomoda e dolorosa per lui. Stesa vicino a lui c’era sua moglie che gli teneva la testa appoggiata sulla spalla, rannicchiata al suo fianco come un piccolo cerbiatto vicino alla madre. Dormiva così profondamente che si sentiva il respiro uscirle dalla bocca con un sibilo leggero. L’infermiera rimase in piedi sulla porta sentendosi un’intrusa. Quando fece per andarsene, Carlo aprì gli occhi e sorrise dicendo con un filo di voce: «Va tutto bene! Va tutto bene!».
L’amore degli sposi passa anche attraverso il dolore e la sofferenza. Se da un lato questo può spaventare, dall’altro diventa un’importante opportunità per rinforzare la propria fede in Dio che ha messo un seme di vita anche nelle situazioni più dolorose e amare. Quando nella vita matrimoniale si presentano malattie e sofferenze gli sposi cristiani sono chiamati a vivere l’amore reciproco come empatia. Si tratta di una modalità molto concreta e reale di vivere l’amore sponsale, fatta di vicinanza e di condivisione della parte più profonda e intima della propria vita, quella dei sentimenti quella del ‘sentire insieme’. Molte volte di fronte a certe malattie che colpiscono uno degli sposi non si trovano parole da pronunciare, non ci sono consigli adeguati da dare; anzi qualsiasi cosa si dica sa di retorica e di banalità. Ci sentiamo totalmente impotenti verso la persona amata e questo ci provoca un grande imbarazzo che ci blocca: non sappiamo cosa fare per aiutare il proprio coniuge malato e sofferente. È il momento di dare spazio alla presenza e ai gesti! La vicinanza empatica con il proprio sposo o sposa è quella che percepisci quando le tue sofferenze sono condivise e comprese dall’altro; qui si realizza concretamente la parola di Dio che per bocca di Paolo afferma: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri” (Rm 12,15). Poiché il dolore e la sofferenza sono inspiegabili e irrazionali, non vanno affrontati e vissuti con parole e ragionamenti, ma ad un livello esistenziale molto più profondo: quello della relazione totale, completa, sincera e profonda. L’empatia è un modo di vivere il rapporto con l’altro profondo e pieno, nel quale tutta la persona è coinvolta: la sua mente, i suoi sentimenti, il suo corpo, il suo tempo. È un amore totale, che si gioca completamente, senza indugi, senza riserve, senza maschere; sincero, puro, genuino, semplice, senza vergogna. Qui ci si incontra con il lato più umano e schietto dell’amore tra uomo e donna, dove la fragilità e la debolezza sono vissute come qualcosa di costitutivo dell’uomo e della donna, come parte della vita e dell’esistenza terrena. Amarsi con tutto se stessi nella gioia e nel dolore significa quindi amarsi da uomini e donne veri, autentici, sinceri.

8. «IO ACCOLGO TE» e prometto di amarti (I°)

Siamo al cuore del matrimonio sacramentale: l’amore umano di un uomo e di una donna diventa segno, simbolo, rappresentazione dell’amore che Gesù Cristo ha avuto e continua ad avere per tutti gli uomini. Questo è il solo e unico amore che gli sposi cristiani si promettono! Ma proprio sull’amore ci sono molti fraintendimenti e interpretazioni diverse, che si discostano dal modello dell’amore di Gesù Cristo.
Nell’opinione comune, specialmente tra i giovani, è diffusa la convinzione che amare sia facile perché spontaneo, istintivo, immediato. L’amore-sentimento scoppia nell’uomo inaspettatamente; l’innamoramento, o il classico ‘colpo di fulmine’, ti prende all’improvviso e ti cattura. È come se l’amore con tutta la sua forza entrasse nella persona quasi di sorpresa e la dominasse. E allora ci si lascia trasportare da esso, lo si asseconda in tutto permettendo che sia lui a gestire i nostri comportamenti e la nostra vita. In questo modo, la persona ne sarebbe quasi “invasata”, quasi “espropriata”, posseduta dall’amore, invece che essere lei a gestirlo! Così scriveva Kirkegaard: «L’amore ha molti misteri, e questo primo invaghimento è anch’esso un mistero, e non il più piccolo».
Contro questa opinione comune, stupisce che nella bibbia e nel vangelo si parli dell’amore come di un comando! Ai suoi discepoli, poco prima di morire, dice: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Obbedire ad un comando non è spontaneo, ma costa impegno e fatica. Come è possibile, dunque, coniugare l’amore con il comando? Infatti, quando un amore è comandato, ci sembra falso, ipocrita, contraddittorio. Ma questa particolarità ci suggerisce l’idea che amare per davvero è un’impresa difficile, che non può essere lasciata alla spontaneità; anzi richiede cura, attenzione, custodia. Una bambina di dodici anni, una volta scrisse nel suo diario: «Vivendo e crescendo con i miei genitori, credevo che il loro amore non morisse mai. Immaginavo che fosse come un grande albero pronto a sfidare qualsiasi tempesta e soprattutto il tempo. Invece mi sono accorta che non è così, perché anche un grande albero può perdere lentamente i suoi rami e diventare secco. Mi hanno raccontato che i grandi amori, come gli alberi, non muoiono per un colpo di vento o per un poco di acqua in meno. Muoiono se li fai morire dentro, come è accaduto a mio padre e a mia madre». Come ogni realtà viva, l’amore può fiorire e può anche morire; perciò va curato, alimentato, costruito. E questo comporta un certo sforzo e impegno! Amare il proprio sposo o la propria sposa è, dunque, un atto di volontà, quindi una scelta, una decisione. Nel giorno delle nozze, mentre con emozione e trepidazione gli sposi pronunciano le parole del matrimonio, prevale l’entusiasmo e il trasporto dell’inizio. Ma quella promessa d’amore che gli sposi si fanno, prende tutta la sua concretezza quando poi ogni giorno dovranno rinnovarsi reciprocamente la decisione e la scelta di amarsi incondizionatamente.
Ma in che cosa consiste l’amore autentico che va al di là del sentimento? Che cosa devo comandare all’amore perché duri nel tempo? Gli devo ordinare perentoriamente di accogliere la concreta realtà dell’altro che ho di fronte. Ci riesce più facile e spontaneo amare l’idea che ho dell’altro perché in fondo non faccio che amare ancora e sempre me stesso, la mia idea dell’altro, appunto! Ma amare la persona reale e concreta di mia moglie o di mio marito, mi richiede la fatica di abbandonare l’idea che mi sono fatto di lui/lei, mi domanda un esodo da me stesso, dal mio «io» che tende a plasmare tutto a sua immagine e somiglianza. Questa operazione richiede un deciso atto di volontà, una scelta forte che solo un comando energico mi aiuta a fare. Ma in nome di che cosa? In nome sempre e ancora dell’amore per l’altro che ho di fronte!


9. «IO ACCOLGO TE» e prometto di amarti (II°)

Al momento del loro matrimonio, gli sposi cristiani promettono di amarsi reciprocamente. Ma che tipo di amore è? La risposta a questa domanda non è ovvia, né scontata. Infatti, il matrimonio come sacramento esiste come segno testimoniale dell’amore che Gesù Cristo ha avuto e continua ad avere per la Chiesa, la comunità dei credenti. Tant’è vero che la stessa Parola di Dio ha paragonato Gesù allo sposo che ama l’umanità sua sposa. Il modello dell’amore che gli sposi cristiani hanno davanti non può essere altro che quello di Gesù! Nella lettera agli Efesini si legge: “Come Cristo ha amato la Chiesa, così lo sposo è chiamato ad amare la sua sposa” (cf. Ef 5,25). A partire da qui, gli sposi possono imparare l’amore guardando al Signore Gesù, alla sua vita, alle sue scelte, a come egli lo vive e lo esprime nei Vangeli. Avvicinarsi e conoscere sempre più Gesù è la via privilegiata e fondamentale per imparare ad amare il proprio marito e la propria moglie da cristiani. Quali sono, dunque, le caratteristiche dell’amore di Gesù che anche gli sposi possono vivere tra di loro?
Gesù ama con totale gratuità. Egli sceglie di incarnarsi e di farsi uomo senza chiedere nulla in contraccambio. La sua è una scelta unilaterale; è una decisione senza condizioni. Non c’è merito nostro, ma unicamente dono di Dio che decide di amarci incondizionatamente. Inoltre, sceglie liberamente di “farsi carne”, come afferma il vangelo di Giovanni (Gv 1,14). Poteva dire “si fece uomo”; invece preferisce dire “carne” per sottolineare la fragilità e la debolezza dell’essere umano che Gesù accoglie e fa diventare sua. Dio si fa fragile, si fa compagno di strada dell’uomo nella sua debolezza e nella sua impotenza. Pertanto, l’amore tra sposo e sposa è quello che corre tra due persone deboli e non perfette! Amare la carne dell’altro vuol dire accogliere amorevolmente la persona anche con le sue fragilità e imperfezioni. Ecco la gratuità: uno sposo (e viceversa) non può amare la sua sposa perché è irreprensibile, giusta, buona, brava…, ma unicamente per se stessa, per ciò che è. Ogni altro tipo di amore sarebbe sempre sottilmente interessato.
Gesù ama mettendo al centro l’altro. Lungo tutta la sua vita, Gesù non ha pensato a sé, ad affermarsi o ad imporsi sugli altri: ha deposto invece il suo «io» per dare spazio alle attese, ai problemi e ai sogni dell’altro. La sua stessa morte in croce è la conseguenza di una vita totalmente spesa nel dono di sé agli altri: è uscito da sé, si è aperto a possibilità nuove, ha amplificato se stesso. Si è donato a tal punto agli uomini che ha raggiunto una vita pienamente realizzata: la risurrezione. Allo stesso modo, gli sposi si amano mettendo al centro l’altro nella reciprocità della relazione. Perché l’altro sia al centro, però, è necessario togliere potere al proprio «io»; non si tratta di annullarsi di fronte all’altro, ma piuttosto di smettere dall’essere il centro di tutto. Questo tipo di amore non elimina l’altro nella sua personalità, ma gli toglie la centralità e lo depone dalla sua sovranità. Questo è l’amore che prepara uno spazio accogliente all’altro affinché egli cresca.
Gesù ama con un amore di meraviglia. L’evento più straordinario e inaspettato di tutta la vita di Gesù fu senz’altro la sua risurrezione. Dio Padre ha regalato a suo figlio Gesù Cristo la risurrezione che per i discepoli e le donne che lo seguivano ha prodotto uno stupore totale. Quale meraviglia, insieme a timore, hanno provato le donne quando hanno trovato la pietra del sepolcro ribaltata e un angelo che annunciava: “Non è qui, è risorto”? Anche l’amore dell’uomo e della donna dovrebbe essere l’esperienza della meraviglia: questo ci permette di superare la monotonia e la noia della quotidianità. Infatti l’amore cresce quando viene coltivato lo stupore, cioè l’atteggiamento di continua sorpresa di fronte all’altro. Chi pretende di conoscere tutto del proprio sposo o della propria sposa, non ha più nulla da scoprire: si è impadronito dell’altro e per lui tutto diventa scontato. Invece l’altro non è mai uguale: c’è sempre qualcosa di nuovo in lui. In questo modo si tiene vivo e palpitante l’amore e la vita insieme diventa un’avventura sempre nuova, capace di stupirci ogni giorno.


10. «IO ACCOLGO TE» e prometto di onorarti.

Un celebre libro sull’amore dello scrittore e filologo irlandese C. S. Lewis porta un titolo curioso e stimolante: I quattro amori. L’espressione vuole sottolineare la ricchezza e la varietà del rapporto d’amore, che si presenta come affetto, amicizia, eros e carità. Infatti l’amore è una realtà viva e dinamica che abbraccia la vita di tutti gli uomini e che manifesta tutta la sua bellezza proprio nella vita di coppia. Nell’amore autentico, quindi, vi è una crescita, uno sviluppo, una progressione: in chi si ama veramente la relazione non può rimanere sempre la stessa a venti, a quaranta o a sessant’anni. Ogni rapporto, ogni legame amoroso, soprattutto quello degli sposi, per vivere deve cambiare, deve crescere, svilupparsi, altrimenti finisce e muore.
Nella formula del consenso matrimoniale vi è un’espressione particolare che sottolinea un modo proprio degli gli sposi di amarsi. Dopo la promessa sull’amore, quasi a voler specificare ancora di che cosa si tratta, essi aggiungono: prometto di onorarti. Cosa significa questa espressione? Nell’immaginario comune la parola “onore” fa riferimento all’importanza e al valore della personalità che ho davanti, al riconoscimento della dignità della persona che merita rispetto e venerazione. Ma se volessimo specificare ancora meglio il significato di questa parola, dobbiamo andare all’etimologia del verbo “onorare”. Esso deriva da due termini latini, e cioè “onus dare”, che letteralmente significano “dare peso”. Pertanto, “onorare qualcuno” vuol dire “dargli importanza”, prendere in seria considerazione la persona a cui mi rivolgo e con la quale entro in relazione. Se proviamo a riferire questi significati alla relazione di coppia, scopriamo delle sfumature e delle tonalità dell’amore molto concrete e interessanti. Il marito che onora la propria moglie (e viceversa) è colui che la riconosce importante, che la stima e le dà valore; è colui che dà peso alle sue parole e alle sue idee, che la interpella di fronte alle decisioni, che ascolta il suo parere sulle questioni importanti e su quelle ordinarie, è colui che si confronta con lei, che dialoga, che la ascolta con attenzione e che dà importanza ai suoi sentimenti. Quando do onore a mia moglie o a mio marito non c’è nulla di lui o di lei che mi lascia indifferente: ogni cosa ha il suo peso e la sua importanza. Chi invece valuta, decide e sceglie da solo, senza il bisogno di nessuno, senza tener conto delle idee o del parere del proprio coniuge, lo sta dis-onorando! Perciò, “onorare” la propria moglie o il proprio marito è quel particolare aspetto dell’amore che riconosce l’altro importante e degno di essere ascoltato, perché il suo pensiero, il suo parere, le sue parole contano e sono importanti. In questo modo, la persona si sentirà valorizzata e stimata, più viva e fiduciosa. Non c’è nulla quanto questo tipo di amore che è capace di far rivivere un uomo o una donna e dargli fiducia nella vita.
Qualche tempo, fa un amico medico mi raccontava un fatto che era accaduto ad un suo paziente. Un anziano signore che era ricoverato nel suo reparto di ospedale non dava alcun segno di miglioramento. Da dieci giorni ormai, l’anziano non reagiva più alle cure. Si era abbandonato sul letto di ospedale e sembrava non avesse più voglia di lottare per la vita; era stanco e rassegnato. Ma un giorno, il medico passò a visitarlo come di consueto ed ebbe una sorpresa. Tutti i valori dell’anziano signore erano tornati a posto. Il vecchietto stava seduto, appoggiato ai cuscini e aveva ripreso colore. «Ma cosa le è successo?», chiese il dottore. «Solo ieri disperavamo per la sua vita. E adesso tutto funziona a meraviglia! Si può sapere cosa le è capitato?». L’anziano signore sorrise, Annuì a lungo e disse: «Ha ragione. Qualcosa è capitato. Ieri è venuto a trovarmi mio nipotino e mi ha detto: “Nonno, devi tornare subito a casa: la mia bicicletta si è rotta!”». La cura più bella che abbiamo per riprendere vita ed energia è l’amore di chi ci fa sentire importanti, degni di stima e di valore. Anche per gli sposi, dunque, onorarsi reciprocamente vuol dire sentirsi importanti per l’altro, sentire che io conto per te e quindi mi sento vivo. Chi impara ad onorarsi così, si dona reciprocamente vita e fiducia nel futuro.


11. «IO ACCOLGO TE» ogni giorno della vita.

Il momento più impegnativo della formula del consenso matrimoniale è senz’altro quando i due sposi si dichiarano di amarsi per tutti i giorni della vita. La prospettiva di una unione che duri per sempre può a volte spaventare i giovani sposi, perché dà loro l’impressione di un impegno troppo oneroso che li vincola ad un futuro ignoto e imprevedibile. Ad uno sguardo immediato, globale e complessivo, il “per sempre” può impaurire; ci si sente inadeguati e mai pronti ad una promessa così a lungo termine; si ha come l’impressione di un carico troppo pesante da sopportare, sotto il quale prima o poi si cederà. Eppure è nella natura dell’amore vero e autentico impegnarsi in una relazione che duri per la vita: il dono di se stessi, della propria vita, all’altro non può che essere totale e definitivo, altrimenti si ha la percezione di una relazione non vera nella quale ci si sente usati e poi gettati via perché non più utili. Un rapporto che fin dall’inizio si sa essere temporaneo, a “tempo determinato”, va ad inquinare l’amore stesso che si trasforma pura autogratificazione e autocompiacimento personale. Chi ama la propria moglie o il proprio marito “a scadenza” non lo ama proprio, ma lo “adopera” per la propria autorealizzazione, per sentirsi gratificato e quando l’altro non mi soddisfa più, lo scarico come uno oggetto consumato.
Da queste riflessioni si comprende molto bene che il rapporto con il tempo è di fondamentale importanza per la relazione matrimoniale. Del resto, parlare di tempo, significa parlare di noi e della nostra vita, poiché noi siamo tempo! Ma qual è la maniera giusta di “stare” nel tempo? Di vivere il tempo? Nel vangelo di Matteo, il Signore Gesù ci dà una indicazione importante: “Non preoccupatevi del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,34). Questa è la strada indicata per poter vivere con sufficiente serenità il “per sempre” della promessa matrimoniale. Infatti non ci viene naturale “stare” consapevolmente dentro al nostro presente. La vita frenetica dei nostri giorni ci strattona da mille parti, ci dis-trae fino al punto che viviamo come portati lontano dal nostro presente perché tutti proiettati nel futuro oppure legati e vincolati ad un passato da cui non riusciamo a liberarci. Eppure, la saggezza del vangelo ci invita a vivere momento per momento il nostro presente, a goderci quello che qui, ora, ci accade e ci capita, un po’ alla volta. Un grande castello non si costruisce mattone per mattone? Se li prendiamo tutti insieme nessuno potrebbe reggere il peso di milioni di mattoni, ma se li afferriamo uno ad uno sicuramente ci risulterà facile a costruire il castello. Allo stesso modo la fedeltà al “per sempre” la si costruisce giorno dopo giorno!
Una favola antica racconta di un orologiaio saggio che stava aggiustando il pendolo di un vecchio orologio, quando d’un tratto, con sua grande sorpresa, lo sentì parlare. «Per favore, signore, mi, lasci stare» supplicò il pendolo. «Mi farebbe questa gentilezza? Mi lasci rotto, così come sono! Pensi a quante volte dovrò battere le ore, notte e giorno. Tanti battiti al minuto, sessanta minuti all’ora, ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno. Anno dopo anno, milioni di colpi… Non ce la farò mai». Ma quell’orologiaio gli diede una risposta molto saggia: «Non pensare al futuro. Batti un colpo volta per volta e te li godrai fino alla fine dei tuoi giorni». Fu proprio ciò che il pendolo decise di fare e ancora sta battendo felice il tempo. Così si costruisce l’impossibile fedeltà matrimoniale: giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, cogliendo l’occasione nell’attimo presente, senza mai rimandare a domani le parole e i gesti dell’amore. Il “per sempre” non sarà mai insopportabile e noioso se lo si vive a fondo attimo dopo attimo; non diventerà mai un peso insostenibile se lo svincoliamo dai rancori del passato e dalla zavorra del risentimento che ci frena e ci appesantisce la vita; non sarà mai una delusione se ci liberiamo dall’illusione che domani ci sarà qualcosa di migliore. Ora, adesso, il tuo presente è il momento migliore: l’unico che ti è dato da vivere! Se lo gusti fino in fondo, non ti deluderà.


12. «IO ACCOLGO TE PER SEMPRE»: il tempo della salvezza.

Gli antichi saggi orientali descrivevano il tempo in questo modo: «Ieri è storia, domani è un mistero, oggi è un dono; per questo si chiama presente!». In questo proverbio viene sottolineata la caratteristica dell’attimo presente come “dono”, come il momento opportuno in cui accogliere consapevolmente la vita che ci viene offerta nell’istante che ci è regalato, come il solo che realmente e concretamente ci appartiene. Questa concezione del tempo si avvicina a quella cristiana, poiché nella bibbia viene detto che il tempo è creato da Dio e quindi ha un valore positivo: è il segno della cura e dell’amore che Dio ha per tutti gli uomini. In ogni attimo che noi viviamo, dunque, è contenuto un segno della presenza amorosa di Dio; vi è per noi l’opportunità di raccogliere il regalo d’amore che il Signore ci ha preparato, costituisce cioè una vera occasione di salvezza, di vivere una vita piena e realizzata. Il linguaggio biblico chiama questo tempo kairos che si distingue dal tempo cronologico, quello dello scorrere interminabile dei minuti, delle ore e dei giorni. Nel vangelo di Marco, le prime parole pronunciate da Gesù parlano proprio di questo kairos: «Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Si tratta di un tempo pieno della presenza di Dio, nel quale ogni istante e ogni attimo trasuda della cura e dell’amore che Dio ha per gli uomini; potremmo immaginarlo come un tempo “denso” da gustare in ogni suo momento perché in esso Dio ora è presente a nostro favore. In questa prospettiva cristiana, dunque, non c’è più nulla da aspettare, non esiste più un’attesa infruttuosa, un tempo vuoto e senza senso; tutto è già qui, ora, alla nostra portata, nelle nostre possibilità; il bene e la salvezza si sono già fatte presenti nel tempo e impregnano ogni istante della nostra esistenza.
Nella vita degli sposi cristiani questa prospettiva è di fondamentale importanza. Nel giorno del matrimonio, la coppia credente celebra il dono della salvezza a proprio favore; ossia riconosce l’amore incondizionato che Dio ha avuto per ciascuno dei due e, per tutto il tempo della loro vita, gli sposi si affidano a questa tenera cura di Dio. Ciò significa che i coniugi cristiani credono fermamente che ogni istante della loro vita insieme e che giorno che passano nell’amore reciproco è un’occasione per sentire su di loro l’amore misericordioso di Dio Padre. In forza di questa fede, allora, impareranno a valorizzare ogni attimo e ogni minuto della loro giornata per donarsi reciprocamente l’amore; non si lasceranno sfuggire l’occasione per vivere gesti, sguardi e parole d’amore l’un per l’altro e faranno di tutta la loro vita quotidiana un vero tempo di salvezza e di vita piena. Il segreto sta proprio qui: credere che in ogni istante della vita vi è un dono che Gesù Cristo ha preparato per noi, per la nostra felicità. La sapienza orientale ha tramandato un racconto che ci aiuta a capire questa verità.
Si racconta, infatti, che il potente e ricchissimo re di Bengodi riceveva ogni giorno l’omaggio dei suoi sudditi. Aveva conquistato tutti i regni possibili, aveva ricchezze immense e si annoiava un po’. In mezzo agli altri, puntuale ogni mattina, arrivava anche un silenzioso mendicante che portava al re una mela. Poi, sempre in silenzio, si ritirava. Il re, abituato a ricevere ben altri regali, con un gesto un po’ infastidito, accettava il dono, ma appena il mendicante voltava le spalle cominciava a deriderlo, imitato da tutta la corte. Il mendicante non si scoraggiava. Tornava ogni mattina a consegnare nelle mani del re il suo dono che il re deponeva meccanicamente in una cesta accanto al trono. La cesta, che conteneva tutte le mele portate dal mendicante con gentilezza e pazienza, ormai straripava. Un giorno, la scimmia prediletta del re prese uno di quei frutti e gli diede un morso, poi lo gettò via sputacchiando ai piedi del re. Il sovrano, sorpreso, vide apparire nel cuore della mela una perla iridescente. Fece subito aprire tutti i frutti accumulati nella cesta e trovò all’interno di ogni mela una perla. Meravigliato, il re fece chiamare lo strano mendicante e lo interrogò. «Ti ho portato questi doni, sire – rispose l’uomo – per farti comprendere che la vita ti offre ogni mattina un regalo straordinario, che tu dimentichi e butti via perché sei circondato da troppe ricchezze. Questo regalo è il nuovo giorno che comincia». Ognuno dei nostri giorni è come una perla preziosissima. Ciò che conta è accorgersene e non sprecarlo gettandolo via.

Fr. Lorenzo Raniero, ofm

giovedì 8 settembre 2011

Quando parli, tieni sempre presente...

Oggi, vorrei condividere con voi quanto ho trovato in una omelia di don Marco Pedron a proposito del Vangelo di domenica scorsa Mt 18,15-20 sul tema della correzione fraterna, secondo me molto difficile ai giorni nostri sia nei panni di chi corregge, sia in quelli di chi viene corretto. Le righe che seguiranno ci possono aiutare quando siamo chiamati dalle circostanze a contribuire alla crescita del nostro prossimo:

Quando parli, tieni sempre presente questa regola

Ad un rabbino fu chiesto: “Fino a quando dovrò ammonire mio fratello?”. E il rabbino rispose con quattro domande: “Quanto tempo ci vuole per fare una casa?”. E il discepolo rispose: “Un anno”. Quanto tempo ci vuole per fare un albero?”. “Cinque anni”. “Quanto tempo ci vuole per fare un figlio?”. “Quindici anni”. “E quanto tempo ci vuole per distruggere tutto questo?” “Un attimo!”. Concluse il rabbino: “Vedi, ci vuole così tanto tempo per costruire ma basta un attimo per distruggere”.
Quando parli, tieni sempre presente questa regola e stai attento alle tue parole perché possono essere una bomba: una volta innescata, scoppia. E in un attimo si distruggono anni, rapporti, amicizie, famiglie. Non ti preoccupare di ammonire tuo fratello, preoccupati di ascoltarlo e di entrare nel suo cuore.

Pensiero della settimana
Un mattino, come spesso accadeva, il califfo chiamò un indovino e gli raccontò il seguente sogno: “Ho sognato che i miei denti cadevano l’uno dopo l’altro e alla fine la mia bocca restava senza denti. Cosa ne pensi?”. “Oh! signore, non è un buon segno. Il sogno significa che i tuoi parenti moriranno prima di te e tu rimarrai da solo!”, gli disse l’indovino. Il califfo si rattristò e si infuriò a tal punto che ordinò all’esperto di non farsi più vedere. Quindi raccontò il sogno ad un altro mago. Questi gli rispose: “Oh! mio signore, è un buon segno. Il sogno prevede che la tua vita sarà lunga e che tu sopravviverai ai tuoi parenti e camperai più di tutti!”. Il califfo tutto contento disse: “Che bel sogno!”, e diede cento denari all’esperto che lo aveva interpretato così bene. Poi ripensò a ciò che gli aveva detto il primo indovino e si disse: “Ma, mi ha detto la stessa cosa! Ma come potevo accettare una verità, così come me l’ha posta lui?”.

Anche la verità più bruciante si può dire con amore.
Non è tanto il cosa ma il come che ci fa paura.
Non la verità da affrontare ma come ci viene posta.


Tratto dal sito lambarené una volta entrati, cliccare su “così per amore” e ci sono a disposizione tutte le omelìe di don Marco Pedron. Quanto sopra è alla fine di quella n. 9.41 e che si intitola: “Cuori che vibrano all’unisono”.
Ciao e alla prossima.
Tanino